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A Frederick Sanger bastò osservare la DNA polimerasi all’opera per capire come sviluppare il primo metodo per sequenziare il DNA. L’unico ingrediente che dovette aggiungere furono dei nucleotidi particolari, chiamati dideossinucleotidi: queste molecole hanno una modifica chimica tale per cui, una volta inserite nella catena nascente di DNA, ne interrompono la sintesi. La polimerasi non riesce più ad aggiungere altri nucleotidi, e rilascia così un frammento monco. A questo punto bisognava fare due cose: misurare la lunghezza di questo frammento e riconoscere il dideossinucleotide che si era legato per ultimo. Con queste due informazioni in mano leggere la sequenza è immediato: se ho ottenuto un frammento lungo 10 nucleotidi dove l’ultimo nucleotide aggiunto è una G, io so che in 10° posizione c’è una G. Un tempo per fare questo si eseguivano sullo stesso DNA quattro reazioni separate, per ognuna delle quali si utilizzava un dideossinucleotide diverso: ddATP, ddCTP, ddGTP e ddTTP. Al termine della reazione, si prendevano i frammenti generati da ogni reazione e li si misurava mediante un’elettroforesi su gel: in questo gel, le molecole più lunghe si muovono più lentamente e tutti i frammenti possono quindi essere separati. Al termine, si ricostruiva la sequenza. Con l’avvento dei sequenziatori automatici, si è iniziato a fare tutto in un’unica miscela di reazione, etichettando ogni base azotata con una molecola fluorescente di colore diverso; inoltre, i frammenti si separano in tubi capillari, con un lettore ottico che registra il colore emesso dal DNA al suo passaggio.